Un paio di esanime fette di pomodoro, accompagnate da un drappello insapore di pisellini bolliti, languiscono in un piatto senza neppure il conforto del condimento, facendo da contorno ad una dimenticabile ma purtroppo non dimenticata bistecchina, indurita da una, forse inesperta, sicuramente ingiustificata, prolungata cottura. Questo fu il mio primo contatto con il cibo in UK, in un pub, quando arrivai nel 2006 per il colloquio di lavoro. Senza scomodare il filosofo tedesco Feuerbach ed il suo saggio "siamo quello che mangiamo", diciamo solo che l'esperienza non fu culinariamente piacevole.
L'attenzione che un popolo riserva al cibo è comunque un argomento interessante, perché con il cibo ci si deve confrontare quotidianamente, non foss'altro che per necessità biologica, e quindi il rapporto con il cibo aiuta a capire una società, oltre a rappresentare spesso, come nel mio caso, il primo contatto con la stessa.
Ho avuto recentemente l'occasione di approfondire questo argomento ed altri relativi al cibo con Anna Del Conte, una dei più stimati gastronomi italiani in UK.
La incontriamo nella cornice di un freddo e piovoso pomeriggio inglese, nella campagna del Dorset, una contea nel sud dell'Inghilterra, dove vive. Rappresentante della buona borghesia milanese, di cui mantiene inalterata una sobrietà ed un'eleganza agli antipodi dalla milanesità da bere impostasi negli anni '80, con cui l'Italia mi sembra faccia ancora, culturalmente, i conti, emigrata in Inghilterra come ragazza au pair negli anni '40, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e da allora qui rimasta, Anna del Conte ha dedicato gran parte della sua vita a diffondere la sua passione per la cucina italiana. Scopriamo, fin dalle prime battute, una persona attenta ed informata ("ma lei di questo Grillo cosa ne pensa?"), ironica e schietta, come solo gli anziani a volte si permettono il lusso di essere.
La chiaccherata inizia dal suo ultimo libro, "Italian Kitchen", una raccolta di ricette di antipasti, primi e dolci, che ho trovato, da italiano, molto interessante, perché è un libro semplice, chiaro ed onesto nella sua essenzialità (fin dal titolo direi), una raccolta di ricette che ogni persona dovrebbe essere capace di cucinare per poter affermare di conoscere la cucina italiana. Un libro che consiglierei a chiunque abbia un amico inglese appassionato di cucina o italiano ma culinariamente illetterato o maldestro.
Dai bucatini all'amatriciana, ai risi e bisi, dalla panzanella alla pasta con le sarde, dalla pastiera alla torta sbrisolona, il libro descrive un centinaio di ricette rendendo anche giustizia alla varietà geografica della nostra gastronomia, ben più ricca, mi ricorda la mia interlocutrice, della cucina inglese dove la varietà regionale è meno marcata per non dire assente, conseguenza, mi fa riflettere, del fatto che il Regno Unito è tale da molti secoli; manca il campanilismo, anche culinario, che c'è in Italia.
Mi fa comunque presente che esiste un orgoglio culinario inglese, che molti inglesi sanno di cibo e molti cucinano bene. Mi mostra un libro che secondo lei racconta bene la storia della cucina inglese, scritto da Tom Parker Bowles (il figlio di Camilla, quella Camilla, per chi fosse più attento ai nomi che ai cognomi), "Full English: A Journey Through the British and Their Food".
E lei invece come ha iniziato la sua carriera di cookery writer?
"Come tutti i bravi italiani, per un certo periodo, erano gli anni '70, ho dato lezioni di italiano. Una mia studentessa era la figlia di un publisher che stava pubblicando un libro sul pane. Allora le ho proposto
would your father being interested on a book on pasta? La sera stessa il padre mi ha contattato. Sono stata fortunata a trovarmi al momento giusto nel posto giusto" ammette con sincerità.
Il libro che ne è uscito, Portait of Pasta, più che un ricettario è un libro storico sulla pasta; me ne mostra una copia, e vengo colpito dalla copertina vagamente liberty, a distanza di più di 40 anni ancora graficamente molto bella.
In tutti questi anni di attività ha avuto l'occasione di seguire con attenzione il rapporto tra gli inglesi ed il cibo. Un recente articolo di FT ricordava che gli inglesi sono poco propensi a spendere per mangiare bene. Viene dato poco valore alla qualità degli ingredienti. Come mai secondo lei? E come è evoluto durante i decenni il rapporto degli inglesi con il cibo?
Il motivo, ci spiega, è storico. E spesso il legame con la storia tornerà nell'intervista.
"Si sono abituati durante la guerra ad acquistare cibo a poco prezzo; mi ricordo che quando sono arrivata qui, subito dopo la guerra, il cibo costava ancora molto poco in proporzione alla vita, solo l'11% del salario era speso in cibo, pochissimo. Dopo la guerra, negli anni '50, mentre l'Italia era un paese che si stava riprendendo grazie al piano Marshall, l'Inghilterra ha attraversato invece una fase molto dura, con il razionamento di carne e burro che è finito solo nel '54. Si trovava poca varietà ma la qualità era buona: ottime verdure, anche se limitate a quelle locali, carote, parnship, e ottimo pesce, anche se limitato a quello dell'Atlantico. Anche il maiale era migliore rispetto a quello di oggi perché era più grasso ed il maiale deve essere grasso! Negli anni '70 e '80 c'è stata invece la grande industrializzazione del cibo, anni terribili e caratterizzati da molto cibo pessimo. Solo alla fine degli '80, inizio '90 è iniziato il miglioramento, anche nei supermercati finalmente la qualità è molto migliorata. Ora l'attenzione al cibo è divenuta un'ossessione! Il cibo va più di moda dell'industria del vestiario."
Nonostante questo mi pare che la cultura del cibo sia abbastanza scarsa e generalmente poco diffusa
Ho una teoria, la prenda per quello che è, "take it or leave it". La causa è dovuta al fatto che la loro rivoluzione industriale è iniziata prestissimo rispetto agli altri stati europei, alla fine del '700 inizio '800, in Francia è arrivata solo a metà ottocento, in Italia addirittura dopo la seconda guerra mondiale. Di conseguenza, una gran massa di persone ha lasciato la propria terra e si è improvvisamente urbanizzata ma a quei tempi non c'erano comunicazioni e, distaccandosi dalla terra, si sono distaccati dalla conoscenza del cibo. E' un retaggio che ancora li tocca.
E molti, a vedere dai supermercati, si rifugiano nei cibi precotti, per non parlare della quantità infinita di snacks, sandwiches e dolcetti venduti nei supermercati
Si anche io quando torno in Italia noto che il reparto di cibi preconfezionati è molto ridotto rispetto a quello inglese dove invece ci sono metri e metri di scaffali. Che poi comprare cibo preconfezionato è anche molto più costoso. Molti non cucinano o cucinano poco.
Forse non ne ricavano piacere?
In realtà alcuni mangiano benissimo e sanno cucinare molto bene, ma come tutto è una questione di classe sociale, è solo la classe benestante quella che adesso mangia bene, anche perché cibo buono si trova ma costa caro. C'è poi il fatto che molti inglesi amano le soluzioni facili, ed è più facile comprare qualcosa di già pronto al supermercato che prepararselo; non trova che siano generalmente pigri?
(Ci rifletto, non lo so, forse avrei dovuto rispondere che credo che tutta la società, almeno quella che conosco, ovvero la classe media occidentale è piuttosto pigra o forse preferisce fare altro, e confessare che anche io mi compro le lasagne precotte al supermercato).
Pigrizia nell'acquisto e incapacità di gestirlo. Siamo una generazione (io incluso) che spreca anche molto, non trova? Immagino che quelli della sua generazione, avendo vissuto la penuria della guerra, abbiano un altro approccio, laicamente sacro col cibo
Qui un terzo del cibo viene buttato via, mi risponde con tono indignato. E' la Nazione che in Europa butta via più cibo! Ma anche in Italia?
Non lo so, ma temo di sì, soprattutto da parte di chi vive da solo. Qui in UK poi è tutto più difficile a causa di best before cortissimi
Sì, hanno delle date di scadenza troppo corte e molti non sanno valutare se il cibo qualche giorno dopo la scadenza sia ancora commestibile (
in effetti spesso le persone non sanno giudicare se una verdura è fresca, e ci sono dei corsi di cucina, anche a Bristol, che ti spiegano come fare ) e poi i supermercati vendono pacchi grandi, io cerco di comprare cose sfuse, senza pacchi. Comunque sì, è un'atteggiamento generazionale; ma lo sa che si dice che la Regina, che è della mia stessa generazione, spenga le luci a Buckingham Palace?
Pensa che la crisi economica ci aiuterà a cambiare la mentalità? Provoco io
Lo spero, è l'unica cosa che le nuove generazioni possono imparare - risponde con una certa mestizia
Restando sul tema di imparare, mi ha colpito molto un passaggio della sua biografia, Risotto with nettles, una riflessione che ribattezzerei "il dilemma dell'expat", dove con lucidità ricorda che vivendo all'estero si diventa un po' ibridi, persone che non si sentono più a casa loro né nel paese di origine né in quello di adozione ed anche nei rapporti affettivi, nella capacità di comprensione reciproca, tutto è più difficile.
Si vivere all'estero è sicuramente un'esperienza che arricchisce ma c'è un prezzo da pagare. Mi legge un estratto della parte a cui mi riferivo "you certainly learn to share most things, but the baggage of anecdotes, proverbs, everyday allusions remain incomprehensible to the other person". Mi ricordo che con mio marito tutto queste differenze culturali ci separavano; avevamo lo stesso tipo di educazione, lo stesso tipo di classe sociale, ma tutto quello che era il contorno era diverso.
Concludo ricordandole una frase che mi regalò un'amica italiana al momento della partenza: prendi il meglio da entrambe le culture e lascia il resto. In effetti riconosciamo che il Paese dove, forse per caso, siamo finiti ma in cui abbiamo deciso di vivere offre anche molti vantaggi, un civismo enorme, il senso della democrazia, molta meno burocrazia, molta libertà, banche efficienti, un senso di unità che in Italia non c'è, ma d'altra parte, e qui torna la storia, gli italiani hanno sempre visto il loro governo come nemico, perché era davvero nemico, spesso invasore. La tradizione culinaria invece non era certo il meglio dell'Inghilterra. Il pub di cui parlavo all'inizio nel frattempo è, giustamente, fallito. Forse anche in UK oggigiorno da un pub lunch si pretende qualcosa di più. Se molto è migliorato e se il cibo italiano è apprezzato e copiato, credo che un po' lo si debba anche all'opera divulgativa svolta da Anna Del Conte tramite i suoi libri.