Friday 2 October 2015


Nemo: ok, il gas è chiuso, le chiavi le ho restituite, i pacchi spediti, la macchina pure, gli amici salutati, il biglietto di sola andata acquistato, resta solo un’ultima cosa da fare.

Omen: Ah allora hai deciso! E ti rifarai vivo così, come se nulla fosse, dopo tutto questo tempo?

Nemo: Eh si lo so, ma anche andarmene senza dire nulla, come faccio? Dimmi, pensi che ci sarà ancora qualcuno là fuori?

Omen: Dubito ma non resta che affacciarsi e vedere.

Nemo: Vero. Ok, si parte, last round!


Hello, Goodbye


Dear reader,

molto tempo è passato dall’ultima volta che ci siamo sentiti. Scusa se non mi sono fatto più vivo, so che anche i blog richiederebbero la loro netiquette. Il motivo della mia latitanza, come magari ti sei immaginato, è stato semplicemente che gli impegni quotidiani sono diventati più numerosi e scrivere questo diario è passato in secondo piano. Inoltre la formula del blog era diventata un po’ troppo ripetitiva e non mi divertiva più; mi sarebbe piaciuto continuare a fare interviste ma era troppo impegnativo farle bene. E così mi sono allontanato senza salutare, non per maleducazione ma per mancanza di coraggio di decretare a freddo la fine di un racconto, e di un rapporto.

Però ora che, dopo quasi 10 anni di permanenza sul suolo Britannico, la mia esperienza inglese sta per finire, è giusto terminare ufficialmente anche questo blog.

Una decade in una vita non è poco, per inciso il 10% ad essere ottimisti, e per ricordare che a noi ingegneri piacciono le percentuali. Non avrei mai pensato di vivere in Inghilterra e soprattutto di viverci così a lungo e piacevolmente. Bristol, ricca di festival estivi, di musica e buon cibo (anche gli stereotipi devono aggiornarsi ed arrendersi alla realtà dei fatti), capitale verde d’Europa 2015, merita sicuramente una visita magari estesa al sud dell’Inghilterra con le rilassanti “picture perfect” Cotswolds, con la meravigliosa Cornovaglia, o la sempre più vivace Londra ad un’ora e mezzo di treno.

Per me adesso si presenta un’opportunità professionale nuova e sto migrando nel sud della Francia dove troverò più sole, più caldo, cibo migliore (perché gli stereotipi devono aggiornarsi ma bisogna anche essere onesti) ma una cultura più simile alla nostra, e questo è un peccato perché tutto sarà meno interessante, un po’ déjà vu per entrare nell’ottica della nuova lingua.

Non inizierò un "Répétez SVP" perché penso che la cultura italiana e quella francese siano troppo simili per riprovare l’effetto spaisamento inglese, perché comunque anche io sto vivendo questo come un semplice trasloco professionale piu’ che un’avventura (mi sa è colpa dell’età), perché non mi piacciono i sequel e perché probabilmente non avrei tempo lo stesso.

Voglio però ringraziarvi per avermi letto, il tempo è l’unica cosa davvero limitata e non acquistabile, grazie per averne riservato un po’ a quello che scrivevo.

Scrivere un blog è stato divertente e stimolante anche per il rapporto che si instaura con gli altri blogger, amici virtuali a distanza.

Da adesso i post di questo blog sono messaggi in bottiglia che navigano in rete, ed è bello pensare che saranno pescati di tanto in tanto da qualche google search, perché il lato positivo è che lo bottiglie on line non finiscono mai.

Hello and Goodbye (and au revoir!)

Yours faithfully,
Nemo



Post più’ letti dal 16 Luglio 2008 al 2 Ottobre 2015: top 3!

1) 10 August 2008 Ma perche' due rubinetti?

2) 3 April 2009 You are pulling my leg

3) 10 April 2013 Intervista #3: Anna Del Conte

Sunday 19 May 2013


Paste

Dopo un mesetto di pigra latitanza dalle pagine del blog, visto che l'ultima volta parlavamo di cibo, propongo, in onore alla continuità linguistica, di ripartire da paste.

Continuità un po' artificiosa però, perché non di sfogliatelle, colorati bignè o voluttuosi cannoli parliamo, anche perché qui a Bristol di pasticcerie se ne vedono ben poche (ad esclusione di un buon franchising dal nome francofono). Il paste di cui vorrei parlare non è quello che di solito si accoppia con la crema, bensì con il copy.

Oddio, qualche cosa anche questo paste (o meglio to paste, come verbo) ce l'ha in comune con le paste, perché l'incollaggio avviene pur sempre con una pasta, anche se adesiva. Ed anche la parola stessa, dice il dizionario etimologico on line, deriva dal francese paste, oggigiorno pâte, e dal tardo latino pasta (ed a questo punto immagino, qualche latinista nei dintorni?, dal latino pastus), attestandosi con il significato di pasta collosa solo nella metà del quindicesimo secolo.

Questa settimana c'è stata una camminata per sensibilizzare le persone ad uno stile di vita più sano. Nemo, che si ritiene già consapevole della teoria, si è risparmiato la messa in pratica del concetto, ma un'amica che invece ha partecipato all'evento, mi ha fatto notare una curiosità sul volantino dell'evento.


Insomma, grazie ad un frettoloso copy/paste, anche gli obesi possono continuare a mangiare tutte le paste che vogliono!

Wednesday 10 April 2013


Intervista #3: Anna Del Conte

Un paio di esanime fette di pomodoro, accompagnate da un drappello insapore di pisellini bolliti, languiscono in un piatto senza neppure il conforto del condimento, facendo da contorno ad una dimenticabile ma purtroppo non dimenticata bistecchina, indurita da una, forse inesperta, sicuramente ingiustificata, prolungata cottura. Questo fu il mio primo contatto con il cibo in UK, in un pub, quando arrivai nel 2006 per il colloquio di lavoro. Senza scomodare il filosofo tedesco Feuerbach ed il suo saggio "siamo quello che mangiamo", diciamo solo che l'esperienza non fu culinariamente piacevole.

L'attenzione che un popolo riserva al cibo è comunque un argomento interessante, perché con il cibo ci si deve confrontare quotidianamente, non foss'altro che per necessità biologica, e quindi il rapporto con il cibo aiuta a capire una società, oltre a rappresentare spesso, come nel mio caso, il primo contatto con la stessa.

Ho avuto recentemente l'occasione di approfondire questo argomento ed altri relativi al cibo con Anna Del Conte, una dei più stimati gastronomi italiani in UK.

La incontriamo nella cornice di un freddo e piovoso pomeriggio inglese, nella campagna del Dorset, una contea nel sud dell'Inghilterra, dove vive. Rappresentante della buona borghesia milanese, di cui mantiene inalterata una sobrietà ed un'eleganza agli antipodi dalla milanesità da bere impostasi negli anni '80, con cui l'Italia mi sembra faccia ancora, culturalmente, i conti, emigrata in Inghilterra come ragazza au pair negli anni '40, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e da allora qui rimasta, Anna del Conte ha dedicato gran parte della sua vita a diffondere la sua passione per la cucina italiana. Scopriamo, fin dalle prime battute, una persona attenta ed informata ("ma lei di questo Grillo cosa ne pensa?"), ironica e schietta, come solo gli anziani a volte si permettono il lusso di essere.

La chiaccherata inizia dal suo ultimo libro, "Italian Kitchen", una raccolta di ricette di antipasti, primi e dolci, che ho trovato, da italiano, molto interessante, perché è un libro semplice, chiaro ed onesto nella sua essenzialità (fin dal titolo direi), una raccolta di ricette che ogni persona dovrebbe essere capace di cucinare per poter affermare di conoscere la cucina italiana. Un libro che consiglierei a chiunque abbia un amico inglese appassionato di cucina o italiano ma culinariamente illetterato o maldestro.



Dai bucatini all'amatriciana, ai risi e bisi, dalla panzanella alla pasta con le sarde, dalla pastiera alla torta sbrisolona, il libro descrive un centinaio di ricette rendendo anche giustizia alla varietà geografica della nostra gastronomia, ben più ricca, mi ricorda la mia interlocutrice, della cucina inglese dove la varietà regionale è meno marcata per non dire assente, conseguenza, mi fa riflettere, del fatto che il Regno Unito è tale da molti secoli; manca il campanilismo, anche culinario, che c'è in Italia.

Mi fa comunque presente che esiste un orgoglio culinario inglese, che molti inglesi sanno di cibo e molti cucinano bene. Mi mostra un libro che secondo lei racconta bene la storia della cucina inglese, scritto da Tom Parker Bowles (il figlio di Camilla, quella Camilla, per chi fosse più attento ai nomi che ai cognomi), "Full English: A Journey Through the British and Their Food".

E lei invece come ha iniziato la sua carriera di cookery writer?

"Come tutti i bravi italiani, per un certo periodo, erano gli anni '70, ho dato lezioni di italiano. Una mia studentessa era la figlia di un publisher che stava pubblicando un libro sul pane. Allora le ho proposto would your father being interested on a book on pasta? La sera stessa il padre mi ha contattato. Sono stata fortunata a trovarmi al momento giusto nel posto giusto" ammette con sincerità.

Il libro che ne è uscito, Portait of Pasta, più che un ricettario è un libro storico sulla pasta; me ne mostra una copia, e vengo colpito dalla copertina vagamente liberty, a distanza di più di 40 anni ancora graficamente molto bella.



In tutti questi anni di attività ha avuto l'occasione di seguire con attenzione il rapporto tra gli inglesi ed il cibo. Un recente articolo di FT ricordava che gli inglesi sono poco propensi a spendere per mangiare bene. Viene dato poco valore alla qualità degli ingredienti. Come mai secondo lei? E come è evoluto durante i decenni il rapporto degli inglesi con il cibo?

Il motivo, ci spiega, è storico. E spesso il legame con la storia tornerà nell'intervista.

"Si sono abituati durante la guerra ad acquistare cibo a poco prezzo; mi ricordo che quando sono arrivata qui, subito dopo la guerra, il cibo costava ancora molto poco in proporzione alla vita, solo l'11% del salario era speso in cibo, pochissimo. Dopo la guerra, negli anni '50, mentre l'Italia era un paese che si stava riprendendo grazie al piano Marshall, l'Inghilterra ha attraversato invece una fase molto dura, con il razionamento di carne e burro che è finito solo nel '54. Si trovava poca varietà ma la qualità era buona: ottime verdure, anche se limitate a quelle locali, carote, parnship, e ottimo pesce, anche se limitato a quello dell'Atlantico. Anche il maiale era migliore rispetto a quello di oggi perché era più grasso ed il maiale deve essere grasso! Negli anni '70 e '80 c'è stata invece la grande industrializzazione del cibo, anni terribili e caratterizzati da molto cibo pessimo. Solo alla fine degli '80, inizio '90 è iniziato il miglioramento, anche nei supermercati finalmente la qualità è molto migliorata. Ora l'attenzione al cibo è divenuta un'ossessione! Il cibo va più di moda dell'industria del vestiario."

Nonostante questo mi pare che la cultura del cibo sia abbastanza scarsa e generalmente poco diffusa

Ho una teoria, la prenda per quello che è, "take it or leave it". La causa è dovuta al fatto che la loro rivoluzione industriale è iniziata prestissimo rispetto agli altri stati europei, alla fine del '700 inizio '800, in Francia è arrivata solo a metà ottocento, in Italia addirittura dopo la seconda guerra mondiale. Di conseguenza, una gran massa di persone ha lasciato la propria terra e si è improvvisamente urbanizzata ma a quei tempi non c'erano comunicazioni e, distaccandosi dalla terra, si sono distaccati dalla conoscenza del cibo. E' un retaggio che ancora li tocca.

E molti, a vedere dai supermercati, si rifugiano nei cibi precotti, per non parlare della quantità infinita di snacks, sandwiches e dolcetti venduti nei supermercati

Si anche io quando torno in Italia noto che il reparto di cibi preconfezionati è molto ridotto rispetto a quello inglese dove invece ci sono metri e metri di scaffali. Che poi comprare cibo preconfezionato è anche molto più costoso. Molti non cucinano o cucinano poco.

Forse non ne ricavano piacere?

In realtà alcuni mangiano benissimo e sanno cucinare molto bene, ma come tutto è una questione di classe sociale, è solo la classe benestante quella che adesso mangia bene, anche perché cibo buono si trova ma costa caro. C'è poi il fatto che molti inglesi amano le soluzioni facili, ed è più facile comprare qualcosa di già pronto al supermercato che prepararselo; non trova che siano generalmente pigri?

(Ci rifletto, non lo so, forse avrei dovuto rispondere che credo che tutta la società, almeno quella che conosco, ovvero la classe media occidentale è piuttosto pigra o forse preferisce fare altro, e confessare che anche io mi compro le lasagne precotte al supermercato).

Pigrizia nell'acquisto e incapacità di gestirlo. Siamo una generazione (io incluso) che spreca anche molto, non trova? Immagino che quelli della sua generazione, avendo vissuto la penuria della guerra, abbiano un altro approccio, laicamente sacro col cibo

Qui un terzo del cibo viene buttato via, mi risponde con tono indignato. E' la Nazione che in Europa butta via più cibo! Ma anche in Italia?

Non lo so, ma temo di sì, soprattutto da parte di chi vive da solo. Qui in UK poi è tutto più difficile a causa di best before cortissimi

Sì, hanno delle date di scadenza troppo corte e molti non sanno valutare se il cibo qualche giorno dopo la scadenza sia ancora commestibile ( in effetti spesso le persone non sanno giudicare se una verdura è fresca, e ci sono dei corsi di cucina, anche a Bristol, che ti spiegano come fare ) e poi i supermercati vendono pacchi grandi, io cerco di comprare cose sfuse, senza pacchi. Comunque sì, è un'atteggiamento generazionale; ma lo sa che si dice che la Regina, che è della mia stessa generazione, spenga le luci a Buckingham Palace?

Pensa che la crisi economica ci aiuterà a cambiare la mentalità? Provoco io

Lo spero, è l'unica cosa che le nuove generazioni possono imparare - risponde con una certa mestizia

Restando sul tema di imparare, mi ha colpito molto un passaggio della sua biografia, Risotto with nettles, una riflessione che ribattezzerei "il dilemma dell'expat", dove con lucidità ricorda che vivendo all'estero si diventa un po' ibridi, persone che non si sentono più a casa loro né nel paese di origine né in quello di adozione ed anche nei rapporti affettivi, nella capacità di comprensione reciproca, tutto è più difficile.





Si vivere all'estero è sicuramente un'esperienza che arricchisce ma c'è un prezzo da pagare. Mi legge un estratto della parte a cui mi riferivo "you certainly learn to share most things, but the baggage of anecdotes, proverbs, everyday allusions remain incomprehensible to the other person". Mi ricordo che con mio marito tutto queste differenze culturali ci separavano; avevamo lo stesso tipo di educazione, lo stesso tipo di classe sociale, ma tutto quello che era il contorno era diverso.

Concludo ricordandole una frase che mi regalò un'amica italiana al momento della partenza: prendi il meglio da entrambe le culture e lascia il resto. In effetti riconosciamo che il Paese dove, forse per caso, siamo finiti ma in cui abbiamo deciso di vivere offre anche molti vantaggi, un civismo enorme, il senso della democrazia, molta meno burocrazia, molta libertà, banche efficienti, un senso di unità che in Italia non c'è, ma d'altra parte, e qui torna la storia, gli italiani hanno sempre visto il loro governo come nemico, perché era davvero nemico, spesso invasore. La tradizione culinaria invece non era certo il meglio dell'Inghilterra. Il pub di cui parlavo all'inizio nel frattempo è, giustamente, fallito. Forse anche in UK oggigiorno da un pub lunch si pretende qualcosa di più. Se molto è migliorato e se il cibo italiano è apprezzato e copiato, credo che un po' lo si debba anche all'opera divulgativa svolta da Anna Del Conte tramite i suoi libri.

Sunday 10 March 2013


Plot

"Miii, Cesare..." si lamenta in siciliano l'attore sullo schermo e penso che gli Inglesi costretti a leggersi dei sottotitoli, inevitabilmente privati delle espressioni dialettali, si stiano perdendo molto.

E' mercoledì sera, tipico giorno da cinema, anche al di qua della Manica (o siete voi, che non state in UK, al di qua?) e sono al cineclub di Bristol catturato da "Cesare deve morire", il film dei fratelli Taviani, Orso d'oro a Berlino 2012. Film intenso ed originale, racconta la storia della messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare nel carcere di Rebibbia, palcoscenico le celle, i corridoi e gli spazi aperti all'interno del carcere, attori i detenuti, i loro diversi dialetti la lingua scelta per recitare.



Ovviamente non ho posto la minima attenzione ai sottotitoli, tranne quelli indicanti i "capitoli" della storia ma mi sono accorto che congiura era tradotto con plot. Che è vero, ma mi ha fatto sorridere perché per me, dopo anni di quotidiano uso di excel, plot è solo un grafico, solitamente di colore rosso e blu (i due colori di default, che a volte cambio con lo stesso spirito rassegnatamente consolatorio del malato a cui, bloccato a letto, non rimane che la possibilità di rigirarsi nello stesso).

Ed invece, guardando sull'Oxford Dictionary of English (OXE, come è comunemente chiamato) congiura è il primo significato di plot, e grafico l'ultimo. In mezzo c'è plot come trama di un racconto e plot come pezzo di terra. Interessante l'etimologia che viene dal francese "complot", ed il fatto che una trama troppo complicata si possa definire plotty.

Per chi fosse in zona Stratford-upon-Avon, Giulio Cesare verrà portato in scena ad Aprile. Per prepararsi (e per tutti gli altri che non hanno la sorte di vivere nella terra del bardo) c'è Youtube. Enjoy the play - altrettanto originale, ambientata questa volta in Africa - and the plot.

Saturday 2 March 2013


Instructions

Oggi parliamo di un tipico aspetto della cultura inglese, che potrebbe essere classificato sotto il nome di "non dirmi che non ti avevo detto come procedere", apprezzabile in linea di principio, ma ormai completamente degenerato nel ridicolo.

Perché io capisco e condivido che nella gestione di un Paese così ricco di culture provenienti da tutto il mondo non si possano dare per scontati comportamenti e usanze, e per cui sia apprezzabile che, per esempio, a Londra delle scritte per terra (look right, look left, con tanto di freccia, per chi non se la cava ancora con l'inglese) ricordino al forestiero pedone in procinto di attraversare la strada da quale direzione le macchine potrebbero arrivare, ma non capisco perché un automobilista non dovrebbe sapere che al rosso ci si ferma:



Ci sarei anche passato sopra, su questo lapalissiano cartello, figlio di quella cultura di cui dicevamo all'inizio, se non fosse che da qualche giorno ho visto un nuovo cartello in giro:



Ed allora io mi immagino il lungo dibattito al Ministero dei Trasporti in cui esperti del traffico e della comunicazione si interrogano sulla completezza logica dell'affermazione "when red light shows wait here" per concludere che quel segnale, implicando solo che i veicoli si fermino, senza dare alcuna indicazione su quando sia lecito ripartire, rischi di mettere il Paese di fronte a code infinite ma giustificate, dirò di più, quasi sconsideratamente sollecitate dall'autorità e che bisogna lanciare subito, senza indugi, una campagna di ritiro dei vecchi cartelli, logicamente difettosi, per sostituirli con un inequivoco "wait here until green light shows".

Però non posso, da cittadino attivo, non pormi una domanda: e se la lampadina del verde si è fulminata? Statisticamente ogni tanto accadrà. Ecco si, domani mando una mail suggerendo un nuovo, ultimo cartello, "aspettare qui fino a che non appare la luce verde - solo in caso di semaforo funzionante".

PS: instruction, così come instruct, instructor e affini derivano tutti da instrŭĕre (instrŭo, instrŭis, instruxi, instructum, instrŭĕre)

Friday 22 February 2013


Petulant/e

"Now it's you acting as a petulant child!"

Stavamo facendo il rituale giretto attorno all'edificio con i colleghi, dopo pranzo, quando la parola petulant, insieme alla frase che la portava in grembo, si è distinta dal rumore di fondo della conversazione che un paio di mie colleghe inglesi stavano tenendo (e che non era un acido dissidio tra di loro, in realtà il soggetto in questione era il marito di una delle due).

Con scarsa empatia sia nei loro confronti che del suddetto marito, Nemo ha solo pensato: petulant/petulante, interessante, molto latina come parola.

Ed eccomi qua a cercare petulant sull'Oxford Dictionary e sul dizionario latino, scoprendo che viene da pĕtŭlans e che è legata a sua volta a pĕtĕre (pĕto, pĕtis, petii, petitum, pĕtĕre) chiedere, di cui mi viene da pensare discende anche petizione, e a farci un post sopra, visto che Violin/o è stato a lungo su facebook il post più virale prima di cedere il passo a Love at first sight a conferma che niente vende come il sesso ;)

Ecco quindi una nuova lista di parole facili facili, perché in inglese si ottengono semplicemente togliendo la 'e' final/e.

animal/e
opinion/e
different/e
important/e
mission/e
question/e
innocent/e
pertinent/e
natural/e
convenient/e
present/e
suggestion/e
urgent/e
vision/e
television/e
magnet/e
agent/e
social/e
usual/e
discussion/e
confusion/e
professor/e
moral/e
vital/e
ideal/e
prudent/e
question/e
recent/e
decision/e
material/e
gradual/e
aviator/e
original/e
art/e
illusion/e
artificial/e
conclusion/e
virtual/e
religion/e
evident/e

Saturday 9 February 2013


Any preference?

Che la legge non sia proprio uguale per tutti, nonostante l'opposto sia assicurato a chiare lettere nelle aule di tribunale (e chissà se ci sarebbero gli estremi per una causa per pubblicità ingannevole) penso sia una verità con cui ognuno si sia prima o poi, in maniera diretta o indiretta, confrontato. Però che anche la legge elettorale non fosse uguale per tutti, questo non me lo sarei mai aspettato.

Giovedì scorso mi sono arrivate dal Consolato di Londra le schede elettorali ed ho scoperto che, noi votanti nelle circoscrizioni estere, possiamo esprimere delle preferenze sui candidati. Da noi la legge n. 270 del 21 dicembre 2005, altresì familiarmente nota come "il Porcellum", non si applica, bensì abbiamo una legge elettorale ad hoc.

E qui, azzardando una disamina etimo-sociologica per la quale evidentemente non ho i titoli, secondo me ci sarebbe da dirla lunga sul fatto che il termine sia diventato, per quanto pessima nelle intenzioni e nei fini possa essere la legge stessa, tanto popolare e che un intero Paese, classe dirigente in testa, accetti, seppur con sarcasmo, di riferirsi ad essa, una delle leggi fondanti della sua democrazia, quella elettorale appunto, con la parola "porcellum" e poi si fermi lì, senza fare niente, come se la sola appellazione negativa avesse delle proprietà traumaturgiche o limitasse le responsabilità di chi non fa niente per cambiarla avendone i mezzi. Insomma non riesco ad immaginare che gli Inglesi, ancora, classe dirigente in testa, potrebbero per anni accettare di avere una "piggy electoral law" e magari riderci su. Chiusa parentesi, altresì familiarmente noto come pippone.

Così ieri sera, mentre il mio omonimo atmosferico purtroppo imperversava su New York, mi sono dedicato a più miti attività, con accanto solo una tazza di tea, l'inciso è per gli affezionati, ovvero spulciare i candidati delle liste papabili. Esercizio lungo, perché colpevolmente non mi sono informato fino ad ora sui candidati, in certi casi frustrante, visto la pochezza di materiale in rete su alcuni, in altri deludente vistone la qualità.

Preference come si può facilmente immaginare, vuol dire preferenza, e la somiglianza è dovuta ancora una volta, nell'origine latina: praeferre (præfĕro, præfĕrs, prætuli, prælatum, præfĕrre), portare avanti.

E, visto che la preferenza sposta il potere decisionale nella direzione del cittadino, dopo la campagna "Il Natale a Natale" e "Conosci i tuoi diritti" (commerciale versione mestamente contemporanea del più salvifico Conosci te stesso), posso sicuramente portare avanti l'idea che "Preferisco la preferenza!"